“Migliaia di anni passano. Un’altra veggente, un’altra Cassandra.
Anche lei vede: vede ancora di più della prima, vede tutto il mondo.
Ma non è affatto sicura di quel che vede, non può giurare su quel che sa.
Esita incerta, si schermisce.
La maledizione omerica colpisce anche lei, però ribaltata:
sa di dire quesi sempre il falso, eppure viene ostinatamente creduta.
La nuova Cassandra, l’anti-Cassandra, è la fotografia.”
Che cos’è la fotografia? Un’autentica bugia.
Parola di Michele Smargiassi, giornalista professionista, firma di uno dei blog fotografici italiani più seguiti e amati: Fotocrazia.
Fotografia, vero, falso. Sono termini di una questione tutt’altro che risolta.
Il World Press Photo Award di quest’anno ha riportato alla luce dei media e dei critici l’annosa questione che riguarda la natura del rapporto tra fotografia e informazione, fotografia e verità.
Una relazione diretta? Al contrario, inconciliabile?
Una coppia di fatto, forse?
Qualche giorno dopo la polemica riguardante il limite che la post-produzione dovrebbe o non dovrebbe avere nelle immagini di fotogiornalismo (rimando a un articolo de Il Post), ecco nascere un’altra accesa discussione. E questa volta riguarda il connazionale Paolo Pellegrin, fotografo di Magnum, reo secondo Loret Steinberg di BagNewsNotes, un sito che si occupa di critica e analisi dell’immagine giornalistica, di aver deformato la realtà – o quantomeno non aver riportato la verità – scattando una fotografia a Shane Keller, ex marine, ritratto in un cupo garage, munito di un fucile e diversi proiettili.
Pare che che il buon vecchio Shane non abbia apprezzato, che non si sia sentito affatto rappresentato da questa immagine, un’immagine che veicola un messaggio di violenza che non gli appartiene. Ha raccontato di essere stato messo in posa nel suo garage, un luogo che avrebbe garantito a Pellegrin una giusta dose di drammaticità nell’atmosfera, insieme al fucile e ai suoi proiettili (che in ogni caso sono in suo possesso).
Non vorrei dilungarmi sulla vicenda, ma usarla piuttosto come pretesto per riflettere sulla natura della fotografia. Il mezzo fotografico, a differenza della penna o delle tastiere dei nostri PC, non racconta ma evoca. Ed è una differenza sostanziale. In fotografia, non sono chiari i legami di causa-effetto, essa non dimostra ma allude.
La sua natura è ambigua.
Il sospetto nei confronti della fotografia come mezzo oggettivo di informazione è vecchio quanto la fotografia stessa. Ma è come se il sospetto fosse materia dei critici, appartenesse a un altro piano di riflessione, mentre il suo pratico utilizzo e la sua fruizione si accomodino su una per scontata fiducia.
“Sospetto e fiducia cieca convivono sotto lo stesso tetto – afferma Smargiassi – ma in stanze diverse.”
Anche i grandi fotografi ne sono consapevoli, ma mentre alcuni tacciono i loro dubbi – Alfred Stieglitz affermò: “La fotografia è la mia passione, la ricerca della verità la mia ossessione” – altri assumono il peso dell’ambiguità fotografica, accettano il rischio, senza per questo arrendersi o rassegnarsi.
Uno fra tutti: Lewis Hine.
Pienamente consapevole dei limiti dello strumento che teneva fra le mani, Lewis Hine riuscì comunque a usare la sua macchina fotografica per promuovere riforme sociali e per cambiare davvero la società in cui viveva, in particolare nell’ambito del lavoro minorile.
Nell’America dei primi anni del Novecento, di fronte a un capitalismo senza scrupoli, Hine è riuscito a gettare luce, luce a fiotti, su ciò che lo circondava, sulle disuguaglianze, sullo sfruttamento, sulle ingiustizie.
E’ una visione oggettiva? No, è comunque una visione di parte.
Ma è una visione che fa bene.
La fotografia ha sempre mentito, non può fare altro perché il processo di trasposizione della realtà in un’immagine bidimensionale glielo impone: la realtà è solo un elemento nel processo di produzione di una fotografia, afferma Ansel Adams.
Prendere coscienza della natura truffaldina della fotografia non ci deve però far rinunciare al suo potere evocativo, tanto meno al suo utilizzo.
Entra qui in gioco un altro termine.
Non parliamo più di verità ma di utilità.
Ci suggerisce Nelson Goodman: l’utilità è una questione di grado, è capace di offrirci una misura di approssimazione alla verità, non una secca alternativa tra verso e falso.
La fotografia non è vera, ma resta enormemente utile.
Con quali condizioni?
Ci dice Smargiassi:
“Una le riassume tutte: non chiedere alla fotografia più di quanto sia in grado di dare; diffidare della fotografia che si spinge oltre i propri limiti. Solo dentro i limiti della fotografia, e non nelle sue potenzialità illusorie, possiamo cercare quella scintilla che può esserci utile.”
La verità utile si ricava in controluce, da ciò che non ci dice.
Ernst Gombrich propone il principio del testimone oculare, una regola negativa:
“L’artista non deve includere nella propria immagine nulla che un testimone oculare non potrebbe aver visto a un dato momento da un certo punto di vista.”
E per farvi un’idea di quanta verità ci sia nelle fotografie che vi riempiono gli occhi quando al mattino vi leggete il giornale con una bella brioche in mano, guardate qui:
Della serie..
Le fotografie non sanno mentire, ma i bugiardi sanno fotografare.
Lewis Hine
* Questa riflessione è ispirata dalla lettura di Un’autentica bugia, Michele Smargiassi (Ed. Contrasto)
* Il video Photojournalism behind the scenes è di Ruben Salvadori